La confessione di Mario T, di professione editore (o presunto tale)

Raccolgo su questa pagina del mio blog una confessione che ho ricevuto in forma anonima. L’indirizzo mail di provenienza era palesemente falso, per cui non ho avuto modo di verificare l’autenticità delle parole del presunto editore che l’ha mandata, sempre che di editore veramente si tratti.

Lascio a voi il compito di stabilire se sia davvero la confessione di un essere spregevole e vanesio, o se sia l’accorata denuncia di una vittima di un sistema infausto.

Ho pensato molto al se pubblicare o meno questo scritto,alla fine ho deciso di farlo perché ritengo che possa essere utile a qualche novello scrittore che, fresco fresco di penna, possa imbattersi in perversioni analoghe.

DN

Scrivo questa confessione non per redenzione o per alleggerire il peso delle mie azioni. Ahimè, temo che sia più un fattore di vanità: sono un uomo esattamente come voi, e in quanto tale, proprio come tutti voi, ho bisogno di sapere che ciò che ho fatto non andrà perso quando io non ci sarò più.

Non ho problemi di salute, non sono vecchio (o perlomeno non lo sono così tanto da temere l’avvicinarsi della morte), non ci sono stati episodi che mi hanno costretto a fare i conti con la mia coscienza: ho deciso di rendere pubblica (anche se in forma anonima) questa mia confessione semplicemente perché mi annoio. Perché oggi è domenica, e non ho nessuno con cui passarla (ma è un caso più unico che raro, in genere la mia vita è molto piena). Insomma, ho un po’ di tempo a disposizione, tutto qui.

Volendo mettere i puntini sulle i potrei dire che sto seguendo il suggerimento del mio analista (forse sarebbe più appropriato dire che sto seguendo il “dettame” del mio analista). Durante la nostra ultima seduta (vado da lui un paio di volte al mese, mi fa sentire meglio) mi ha vivamente consigliato di scrivere per dare sfogo ai miei tormenti interiori (vi assicuro, ha detto proprio così), e siccome lo pago profumatamente, ritengo che sia il caso che io lo assecondi.

Ma più di ogni altra cosa, volevo provare sulla mia pelle la sensazione che provano i miei “clienti” (difficilmente le virgolette possono essere così appropriate come in questo caso), magari per capire cosa li spinga a cimentarsi in un esercizio così scialbo e antieconomico come la scrittura. Sono infatti giunto alla conclusione che l’atto di scrivere debba per forza essere estremamente gratificante, altrimenti non si spiegherebbe il senso del mio lavoro.

Se vi state chiedendo, appunto, quale sia il mio lavoro, e io mi auguro di sì, perché vorrebbe dire che questo mio esercizio sta riuscendo bene come mi sembra, eccovi accontentati: sono un piccolo imprenditore, un editore per la precisione.

Ho 57 anni e ho dato vita alla mia attività 12 anni fa, trasformando quella che, a conti fatti, non era altro che una copisteria in una casa editrice vera e propria.

Non vi dirò quale fosse la mia occupazione prima, la mia vita lavorativa è stata ricca di esperienze, alcune delle quali non proprio entusiasmanti, vi dirò solo che mi sono formato da solo. Non ho avuto maestri o esempi da copiare, ho semplicemente osservato l’ambiente in cui ho scelto di agire e l’ho plasmato a mia immagine e somiglianza. Il che può essere visto al contempo come un fattore positivo e negativo. Lascerò a voi il giudizio, francamente non mi interessa approfondire.

Vi parlerò di me chiamandomi Mario T, ma ovviamente Mario T non è il mio vero nome. Quello preferisco che rimanga nascosto, per lo meno fintanto che esercito la mia professione. Diciamo che potrei essermi fatto alcuni nemici, e che questa mia confessione, dando gratuitamente in pasto le mie generalità a un ipotetico malintenzionato, rischierebbe di trasformarsi in qualcosa di estremamente pericoloso, almeno per me. Essendo io una persona estremamente cauta, moderatamente riflessiva e – grazie a Dio – tutt’altro che impulsiva, ho optato per l’anonimato, evitando così ogni possibile – e inattesa – scocciatura.

La mia casa editrice porta il mio cognome, per cui è inutile che io stia a sprecare tempo, parole e fantasia nell’affibbiarle un nome fittizio. Da ora in avanti mi rivolgerò a lei chiamandola con l’abbreviazione gergale usata sia da me, sia dalla mia segretaria, e sia – anzi, soprattutto – da quei poveri sventurati che sono entrati a far parte del mio mondo (o forse sarebbe più appropriato definirlo “raggiro”). La chiamerò quindi semplicemente la mia CE.

Immagino che si sia intuito, ma voglio che sia chiaro da subito che non rinnego una che sia una delle cose che ho fatto (e che faccio quotidianamente). Ho la consapevolezza che il mio modo di agire possa apparire agli occhi di alcuni benpensanti come un comportamento non “eticamente corretto”. So che molte persone hanno sofferto dopo aver compreso appieno il significato della firma che hanno apposto al contratto che ho mandato loro, ed è presumibile che, per l’intera durata del mio esercitare, ulteriori persone provino la medesima sofferenza (o auspicabile, vedendola dal mio punto di vista). Diciamo però come stanno realmente le cose: queste persone non hanno subito nessuna ingiustizia. Non hanno firmato un patto con il diavolo e, soprattutto, non sono stato io a obbligarle a firmare. Per quanto mi riguarda è grazie alla loro sofferenza e alla loro istrionica vanità (stupida e pressoché inutile esattamente come la mia, che mi sta spingendo a scrivere questa confessione, appunto) che fino a oggi sono riuscito a mantenere un tenore di vita più che accettabile nonostante due divorzi (con relativi alimenti da versare).

Le aspettative dei miei clienti sono uno dei punti chiave della questione: è inevitabile che affinché qualcuno sia soddisfatto, qualcun altro debba per ovvie ragioni rimanere insoddisfatto. La partita doppia si basa sul dare e avere, è la logica fondamentale dell’economia. Non dico, quindi, che io non mi senta amareggiato per il dolore altrui, ma a conti fatti questo “fantomatico” dolore da me causato (ammesso e non concesso che qualcuno riesca a dimostrare un reale coinvolgimento della mia persona con tale “dolore”) permette al sottoscritto di pagare regolarmente un più che dignitoso stipendio al mio unico figlio (di professione grafico e fumettista, infatti gli ho pubblicato già due volumi di fumetti, ma non vado oltre per evitare di fornire elementi utili a individuare la mia vera identità) e un tutt’altro che dignitoso “obolo” alla signora Laura F (ovviamente anche questo è un nome inventato), ossia alla mia fedelissima segretaria tuttofare. Insomma, il bilancio risultante dalle mie azioni è che sicuramente tre persone (una delle quali sono io, e le altre due sono comunque a me vicine) sono pienamente appagate, mentre un numero imprecisato di sconosciuti, pur non avendo perso nemmeno un centesimo, possa rimanere deluso dalla presa di coscienza della cruda realtà. Non dico che io debba essere ringraziato per aver permesso a dei poco accorti scrittori (o presunti tali) di comprendere come va il mondo, ma di sicuro non merito alcun biasimo.

Il mondo fa schifo? È vero. La gente è cattiva? Altrettanto vero. Solo pochi fortunati riescono a fare quello che gli piace nella vita, chi non lo sa? Vivere per definizione è un continuo compromesso tra aspettative e realtà, per cui non mi venite a dire che sono io il cattivo dell’intera storia. Sono solo un componente del sistema, e la mia unica colpa (se di colpa si vuole proprio parlare) è quella di costringere degli stupidi scribacchini a fare i conti con l’ambiente in cui hanno scelto di entrare. Né più, né meno. Tutto ciò li lascia insoddisfatti? Mi dispiace, ma non ho responsabilità nell’ingenuità altrui. Sono un imprenditore, non un santo. Creo opportunità, do lavoro alla gente. Faccio quel che faccio nel pieno adempimento della legge italiana, e se qualcuno la pensa diversamente vada pure a discuterne con il mio avvocato.

Prendiamo a esempio la mia segretaria, la signora F (da ora in avanti la chiamerò così). È evidente che non sia pienamente in armonia con alcune delle condizioni imposte dal mio modo di lavorare. Pensate forse che mi senta responsabile per questo suo – e, sottolineo, solo suo – poco gratificante modo di vivere l’impiego che ha scelto di svolgere? La risposta è un secco no. Io pago la signora F per fare ciò che è scritto nel contratto che la signora F ha firmato: il nostro è un reciproco scambio, un dare e avere. Io do del denaro in cambio di lavoro, lei dà il suo ottimo operato in cambio di quanto convenuto. Punto.

Tenete presente che per me la signora F è molto più di una semplice segretaria: è un elemento indispensabile della mia vita, rappresenta il mio migliore investimento (anzi, oserei dire successo). Quando non c’è sento la sua mancanza, quando la vedo mi si illuminano gli occhi. Eppure tutto ciò non cambia di una virgola il ragionamento che ho appena fatto, perché è così che funzionano le cose. Io ne ho solo preso atto, mi sono adattato al sistema.

A differenza di quanto possiate immaginare la signora F è priva della benché minima gradevolezza estetica. Non è una bellezza, insomma. È alta più di un metro e ottanta, è vagamente curva e dubito fortemente che possa pesare più di cinquanta chili. La sua età sarebbe per me indefinibile, se non fosse che il suo codice fiscale (che ho vergato a caratteri indelebili sul nostro contratto a tempo indeterminato) mi ha svelato la sua data di nascita. Con un rapido calcolo posso concludere che oggi la signora F abbia 39 anni, ma potrei tranquillamente darle una ventina di anni in più, o in meno, fate voi. Immaginatela come preferite, non bella però, ve ne prego, altrimenti si perderebbe il senso di questa mia disquisizione.

L’ho scelta volutamente così: brutta e non proprio intelligente, intendo dire. Mio padre, pace all’anima sua, mi ha lasciato in eredità questo suo insegnamento: per evitare problemi (e rischi di coinvolgimento) affida il tuo lavoro a una donna (una sola, mi raccomando), cercala poco intelligente, ma non stupida, sceglila talmente brutta che nessuno, oltre a te, possa immaginare di assumerla, nemmeno un’altra donna.

Ricordo perfettamente le sue parole perché mio padre era un tipo logorroico che tendeva a ripetersi. Mario, mi diceva (ovviamente non mi chiamava Mario), cambia pure tutte le mogli e fidanzate che vuoi, ma fa’ in modo che la tua segretaria ti rimanga accanto fino alla fine dei tuoi giorni.

Se pensate che questo sia un discorso sessista, be’, molto probabilmente avete ragione, ma non me ne frega un cazzo, per me è un assioma imprescindibile.

Era un uomo estremamente burrascoso, mio padre. Aveva grossi problemi di socializzazione e un’inspiegabile avversione per gli insetti nel loro insieme, ma in quanto ad affari la sapeva lunga (o, almeno, io l’ho sempre pensata così). Se dovessi scegliere tra un suo consiglio e quello di uno a caso tra i vari cavalieri del lavoro – ancora in vita e non – senza dubbio seguirei il suo. Nonostante ciò ho sempre considerato mio padre una grandissima testa di cazzo (non a caso è uno dei principali argomenti di discussione tra me e il mio analista). Ma non è del rapporto tra me e mio padre di cui vi voglio parlare, per cui chiudo qui la parentesi.

Tornando al nostro discorso, dopo quasi un anno e mezzo di colloqui (non avete idea di quante donne sembrassero avere i requisiti necessari, ma poi non erano realmente come in apparenza, per cui diffidate di chi sostiene che le donne siano tutte stupide, vi assicuro che non è affatto così, purtroppo) sono riuscito a trovare la segretaria perfetta secondo il vademecum di mio padre: la signora F, appunto.

La signora F è una donna che, nel massimo del suo splendore estetico, assomiglia a un macaco giapponese (bipede con il quale, tra l’altro, condivide anche l’acume, oltre che le fattezze). È una specie di mulo da lavoro, non si lamenta mai e presumo che sia vergine, ma preferisco non indagare su questioni ininfluenti allo scopo (comunque, preciso che non le sfiorerei le parti intime nemmeno con un pondulo).

Magari qualcuno di voi si starà chiedendo perché io non abbia il timore che la vera signora F possa riconoscersi in queste parole (in effetti è una domanda che mi sono posto anch’io), e la risposta è che al 101% la signora F non leggerà mai la mia confessione. La vera signora F ha molto lavoro da fare, non esistono domeniche per lei, e non ha certo tempo né (soprattutto) voglia di leggere un’inutile dichiarazione affidata anonimamente alla rete. Inoltre, recentemente, si è lasciata sfuggire un commento rivelatore (direi una debolezza più che una lamentela): il suo lavoro, che ama alla follia in quanto unica ragione della sua misera vita, le ha fatto odiare il suo primo grande amore, la lettura.

Me la immagino la giovane signora F, uguale ad adesso, forse con qualche ruga espressiva in meno – ma per il resto identica – che passa intere giornate, notti comprese, a fantasticare su romanzi di ogni genere. La vedo rispondere a un annuncio trovato sul giornale – il mio – e sperare con tutto il cuore di essere presa. Di poter lavorare per quel regno incantato che le ha tenuto compagnia nei momenti di sconforto. Che ha trasformato ore piatte in un trionfo di avventure, amori e quant’altro. La vedo poi leggere le schifezze che arrivano alla nostra CE, e capisco che il sogno che credeva che si fosse avverato, si è invece trasformato in un incubo. Il piacere della lettura che diventa un obbligo, qualcosa di disgustoso, quasi.

Tutto ciò è terribile, e di questo, lo ammetto, sento in parte il peso della colpa. Ecco perché la stimo, perché io, nei suoi panni, mi avrei già tradito. Lei invece no, lei mi rimarrà accanto finché morte non ci separi (anche perché ho contrattualmente legato alla sua firma delle responsabilità che, se la sua bocca aprisse le cataratte, le renderebbero la vita un inferno – e anche questa è farina del sacco del mio buon vecchio padre, sempre pace all’anima sua).

Devo dire che, almeno finora, ho seguito pedissequamente le orme di mio padre. Orme che, in gioventù, mi facevano incazzare più di un ippopotamo che difende il suo territorio. Avete presente come sono gli ippopotami quando perdono le staffe? Sembrano animali tranquilli, invece si alterano facilmente. Ecco, io ero pressappoco così con mio padre. Tempo fa ho visto una puntata di “Quark” (non ditemi che non sapete cosa sia “Quark” perché non vi crederei… adoro Piero Angela, e anche suo figlio Alberto, fanno dei documentari bellissimi… secondo me hanno anche un bel rapporto padre figlio, ma chissà se è davvero così)… tempo fa, dicevo, ho visto questo documentario sugli ippopotami e vedendo come si comportano quando gli girano i coglioni mi è venuto in mente mio padre. O meglio, mi è venuto in mente questo stupido paragone tra me e gli ippopotami. Lo so che è assurdo, ma è la verità. Ne ho parlato anche con il mio analista. Pensavo che si sarebbe fatto una bella risata, invece con un ragionamento linearissimo mi ha spiegato che il motivo della mia rabbia è sempre stato dentro di me. Che era così quando mio padre era in vita, e che lo è anche adesso che è morto. Ippopotami a parte, secondo il mio analista ho sempre sofferto nel riconoscere nel comportamento di mio padre il fastidio che provo per il mio, di comportamento. Ho sintetizzato, ma a grandi linee questo è il succo dell’intera questione. Il mio analista è una persona preparata che per lo più dice cose sensate, ma a volte mi domando se non mi stia riempiendo la testa di stronzate, magari per sperimentare nuove tecniche di analisi. In ogni caso rispetto il suo lavoro, del resto chi sono io per mettere in discussione le sue parole?

Insomma che, esattamente come mio padre, ho abbandonato la mia prima moglie qualche mese dopo la nascita di mio figlio. Separazione, divorzio, rapporto conflittuale: fino a qui si potrebbe dire che la mia vita abbia rispecchiato la sua. Solo che io, a differenza di mio padre, sono ricaduto nell’errore due anni dopo il divorzio e mi sono risposato. Per fortuna la mia seconda moglie non voleva figli tra i piedi, altrimenti presumo che adesso avrei almeno un altro stipendio da pagare (se non due o tre, addirittura). Per farla breve, come mio padre ho avuto diverse donne, ma sono rimasto fedele solo alla signora F.

Non ho mai conosciuto la sua, di signora F, intendo dire. Ma ne sentivo parlare in continuazione. Per quanto ne so potrebbe essere ancora viva, magari è da qualche parte lì fuori che ricorda i bei vecchi tempi con mio padre, oppure è passata a miglior vita, o magari non è mai veramente esistita, chissà.

Tornando a me, attualmente sono single, ma ho di che sfogarmi, non preoccupatevi. Frequento una donna sposata, madre di due figli (il matrimonio resta in piedi per loro, perché sono ancora piccoli, o almeno così dice lei, e per me è più che sufficiente). Quindi per quanto mi riguarda il rapporto è perfetto, perché io sono libero di fare quel che voglio, lei è infelicemente sposata – al punto da dare a me quel che suo marito non vuole più – e, grazie a Dio, non ha nessuna intenzione di divorziare. Poche scocciature, nessun legame al di fuori della camera da letto: è un ottimo compromesso. Per farvi capire meglio il rapporto, durante il nostro ultimo incontro, mentre si rivestiva mi ha detto che dopodomani sarà il suo compleanno. Non so quanti anni compia, ma dalle turbe che sembrava dimostrare – e da qualche commento sibillino qua e là – ho intuito che si tratti del suo quarantesimo compleanno. Cifra tonda, insomma. Non credo che le farò un regalo, al massimo le darò un libro, uno a caso tra quelli pubblicati dalla mia CE (ovviamente dopo aver passato qualche piacevole ora sotto alle lenzuola).

Ora basta, però… la smetto di parlare della mia vita sessuale, altrimenti qualcuno di voi si farà condizionare e mi giudicherà non per il mio operato, ma per il mio comportamento nei confronti delle donne (o per la mia misoginia, per chiamare le cose con il giusto nome).

A tal proposito, cari “pretini” ben pensanti – che certo non mi darete la vostra assoluzione – vi confesso i miei peccati. Confesso di avere circuito la povera signora F al punto da spingerla a trovare il modo per permettere alla mia CE di beneficiare della cassa integrazione speciale contemplata in non so quale decreto legge (da la stessa signora F scovato). Confesso di averla fatta lavorare un solo giorno alla settimana negli ultimi sei mesi (risparmiando un bel po’ di quattrini) dopo averle concesso lo smart working. Confesso di averla subdolamente obbligata a fare in quel solo giorno il lavoro dell’intera settimana (“tanto a casa lavora in pantofole, signora F!” – le do sempre del lei e la chiamo rigorosamente anteponendo il titolo signora al suo vero cognome, anche se in realtà è signorina, Dottoressa in Lettere addirittura). Confesso, inoltre, di aver calcato la mano sul rischio di una possibile chiusura della CE (in realtà non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello), costringendola a leggere i manoscritti arrivati in redazione anche al di fuori delle ore di lavoro (“del resto la lettura non è sempre stata la sua passione, signora F?”). Infine confesso di essere in tal modo riuscito a far raggiungere lo stesso fatturato dei sei mesi precedenti alla mia CE, ma a fronte di una riduzione drastica delle spese di cancelleria, corrente elettrica, e degli stipendi, ovviamente (ma tutto questo discorso rimarrà un segreto tra me e la signora F – un segreto che non condivideremo certo con chi, la cassa integrazione, ce l’ha finanziata, per intenderci).

Confesso tutto, ma non mi pento e non mi dolgo, perché si tratta di peccati veniali, per i quali io da solo mi sono dato l’assoluzione. Nessun “Padre Nostro” o “Ave Maria” da recitare, la punizione l’ho già scontata non beneficiando appieno del lavoro della signora F.

Sono stati sei mesi difficili, devo ammetterlo. Non poterla chiamare ogni volta che ne sentissi la necessità, dover concentrare in un solo giorno le telefonate di una settimana… è stato pesante, soprattutto all’inizio, ma poi, settimana dopo settimana, ho affinato la tecnica, e un giorno sono arrivato a farla lavorare quasi tredici ore (sulle regolari otto dichiarate, e sempre senza contare i fiumi di merda che le tocca leggere ogni sera prima di andare a dormire).

La signora F è come un mulo, ve l’ho detto, è sufficiente bastonarla per ottenere da lei il massimo, senza nemmeno l’ausilio della carota. Ammetto di avere spesso calcato la mano, e di aver addirittura provato un pizzico di piacere nel sentirla singhiozzare dall’altra parte del telefono. Adesso che lavora da casa è anche meglio di quando era in ufficio: la chiamo alle 9 esatte – ossia all’ora in cui teoricamente timbra il cartellino – e la riempio di lavoro (“per questo ci mette al massimo un minuto, signora F”, “quest’altro è un attimo, basta un click”). Alle 17 e 45 – un quarto d’ora prima della teorica timbratura di uscita – la chiamo per fare il punto, e già che ci sono le do altri due o tre lavoretti da almeno mezzora l’uno. Il tutto condito da una serie indeterminata di mail sparse qua e là nell’intero arco della giornata. Ho anche deviato le telefonate dell’ufficio sul suo cellulare, sono stato costretto a farlo, perché tenere calmi senza di lei un numero sempre crescente di scrittori incazzati era praticamente impossibile. Devo dire che anche in questo la signora F è imbattibile, io non sono degno nemmeno di legarle i lacci dei sandali! Ha un talento naturale, riesce a mandare a fare in culo gli scocciatori senza oltrepassare il limite che porta a eventuali grane. Credo che sia perché ha davvero tanta rabbia dentro – rabbia repressa, come direbbe il mio analista – e immagino che prendere quei deficienti a pesci in faccia la faccia sentire meglio. Per questo non le ho mai pagato uno straordinario – per questo e anche perché mi fa risparmiare un bel po’ di denaro. Il rancore di cui la nutro è necessario per una resa migliore. Del resto la signora F lo sa bene, i soldi che entrano sono appena sufficienti a pagarle lo stipendio. Sono tempi difficili, serve un po’ di dignità, per la miseria! E la signora F, ve l’assicuro, di dignità ne ha davvero da vendere! Le ho spiegato che, se non vogliamo che la baracca chiuda, non posso pagarle nemmeno un minuto in più oltre alle otto ore regolarmente dichiarate (è quantomeno interessante notare come il termine “potere” diventi un sinonimo perfetto del verbo “volere” in certi casi), e lei non ha battuto ciglio.

Lo so cosa vi sta passando per la mente: uno così, uno come me, non può essere che un terrone, il solito arraffone del cazzo, insomma. E vi dirò di più, so anche che adesso, dopo questa mia chiosa da nordico doc con pedigree, camicia verde e tutto il resto, mi starete collocando nella bassa padana, magari alla foce del Po. Perché i benpensanti come voi sono tutti pieni di nobili principi quando si tratta di far approdare i barconi in un’isola che nemmeno sanno che sia in Italia, tra un po’… ma poi, se qualcuno si comporta esattamente come loro, ma lo dice senza vergogna né peli sulla lingua, allora o si tratta di un africano del nord (leggi italiano del sud) o di un ex contadinotto frustrato, un terrone settentrionale, insomma. Si fa presto a sparare sentenze quando si vive in un appartamento di almeno cento metri quadri, con uno stipendio regolare eccetera eccetera. Ma sto divagando… è che vi conosco fin troppo bene a voi perbenisti del cazzo. Siete voi che non conoscete me. Infatti siete completamente fuori strada. Non vi dirò la mia città per ovvie ragioni, ma voglio che sappiate che la regione in cui sono nati i miei nonni (e dopo di loro siamo nati sia io, sia i miei genitori), che poi non è altro che la regione in cui tuttora vivo ed esercito la mia regolare professione, si trova nel nord ovest. Molto a nord. E per darvi un indizio in più aggiungo che non confina con il mare.

Questo particolare è estremamente importante, lo sottolineo perché il bacino di utenza a cui mi rivolgo (ossia quelle persone che nei loro sogni più profondi vorrebbero essere considerate “artisti”) si sente più sicuro quando legge nel contratto il nome della rinomatissima città in cui ha sede la mia CE. È una garanzia, ve l’assicuro.

A proposito del termine “artista” mi vedo costretto ad aprire un’ulteriore, se pur breve, parentesi (avrete notato che questa confessione sembra più un’espressione algebrica, da quante parentesi e trattini sto usando). Diciamo che si tratta di una digressione necessaria, l’ennesima. Non trovate anche voi che in questi giorni si esageri un po’ con l’utilizzo della parola artista? Per me un vero artista è qualcuno come Monet, per capirci. Uno che va (o che è andato) oltre, che fa (o che ha fatto) veramente la differenza. Qualcuno che ha creato qualcosa di innegabilmente magnifico.

Con l’arte non si dovrebbe scherzare, andrebbe trattata con reverenza. Posso capire che in ognuno di noi ci sia una forma di creatività (inespressa, o espressa che sia), ma da qui a definirla arte c’è un mare in mezzo, no? Non si potrebbe usare il termine “creativo”? Il verbo creare prescinde dai risultati, mentre la parola artista sottintende che chi lo è debba per forza ottenere come risultato della propria creatività una forma d’arte universalmente riconosciuta. È un ragionamento semplice, convenite con me?

In tutta sincerità storcerei il naso persino se Leonardo da Vinci in persona venisse a dirmi (parlando di sé in terza persona, magari) che si considera un artista. E, detto ciò, chiudo anche questa stupida digressione.

Ma torniamo alla mia confessione, a ciò che faccio per vivere. Sapete, no, cosa si dice? Che in Italia ci sono più persone che scrivono di quante leggano? Lo si dice perché è vero, è un dato di fatto. Potrei fornirvi percentuali e quant’altro (prima di cominciare la mia attività ho studiato approfonditamente il settore e lo tengo costantemente sotto controllo), ma non ritengo necessario tediarvi con queste quisquilie. Quanto detto, però, è sufficiente a farvi capire come funziona il mio lavoro: la mia CE pubblica libri che comprano sostanzialmente solo gli scrittori che li hanno scritti (nonché la piccola cerchia di parenti e amici, grazie ai quali pagherò le spese di pubblicazione e di stampa del libro). In pratica, più libri pubblico e più guadagno, anche se, ovviamente, non posso esagerare, altrimenti renderei palese il meccanismo. L’unica cosa che devo fare è mettere una clausola nel contratto, tanto ai poveracci che si rivolgono alla mia CE basta leggere che il loro libro verrà pubblicato. Come se il verbo “pubblicare” contenesse l’agognato Sacro Graal, come se fosse la chiave della porta dell’Olimpo. A quel punto il pollo di turno (è incredibile, la rete ne è piena, sembrano non finire mai!) si sarà già tolto un a piuma dal culo per firmare con il proprio sangue.

Ho esagerato, lo ammetto. I dati attuali dicono che un buon 30% di coloro a cui la signora F manda il contratto non ci degna nemmeno di una risposta (questi li chiamiamo gli “intellettuali”, perché si considerano superiori al punto da non risponderci nemmeno con due righe di cortesia – mi chiedo cosa ce l’abbiano mandato a fare il loro schifosissimo capolavoro! La signora F ha buona memoria e controlla per diletto, vi posso dire con certezza che nemmeno uno di questi ha fatto il grande salto; ve l’assicuro, sono perdenti come tutti gli altri, solo più montati). Un misero 2% manda la signora F a cagare (questi li chiamiamo i “maleducati”), un discreto 7% risponde di non essere interessato (i “disinteressati”, appunto) e un 10/15% ha bisogno di chiarimenti (questi sono i più difficili da gestire, li chiamiamo “quelli da incentivare”). Il resto ci rimanda il contratto firmato nel giro di pochi giorni. Anche per loro abbiamo coniato un gergo (o meglio, la signora F ha coniato un gergo, io mi limito a utilizzarlo): quelli che firmano subito li chiamiamo “i pesciolini”, perché sono entrati nella rete, quelli che rispondono qualche giorno dopo sono “i lavoratori”, perché di solito non hanno tempo di rispondere subito, perché sono in ufficio o chissà dove, e quelli che rispondono dopo più di una settimana sono “i ritardatari”. Questi, in genere, siamo noi a mandarli a cagare, perché per esperienza abbiamo imparato che possono diventare pericolosi. Più tempo passa e più soggetti esterni possono aver visionato il contratto (altri scrittori, avvocati, persone del settore) o più tempo si ha a disposizione per informarsi in quella merda di sottobosco dove si frequentano virtualmente (leggi cazzeggiano) tutti i perdenti a cui piace definirsi “artisti”. A sentir loro si tratta di veri e propri circoli culturali, vi rendete conto? Stiamo parlando di gruppi sui social, non di salotti letterari. Insomma, più tempo passa e più i guai rischiano di aumentare, quindi meglio lasciar perdere.

Se siete svegli come penso che siate vi sarete domandati già da un paio di pagine da dove provengano i miei guadagni. Mi avrete fatto i conti in tasca, immagino. Stipendi, bollette, nonché le varie uscite che una normale casa editrice dovrebbe sostenere (in primis la compensazione del diritto d’autore), a fronte dei soli introiti derivanti dalla vendita di libri che non interessano a nessuno: com’è possibile chiudere l’anno in attivo? È davvero facile, giuro. E il motivo per cui ho tergiversato tutto questo tempo e continuo a procrastinare, invece di spiegarvi come faccia, è che mi scoccia darvi questa dritta. Non vorrei che qualcuno si mettesse in testa di farmi concorrenza. Ma come vi ho già detto poco fa i polli sono talmente tanti che c’è spazio per tutti, quindi ho deciso di correre il rischio e di condividere con voi l’idea che ho avuto. Nel contratto metto la clausola “salva mutande” (anche questo simpatico “epiteto” è stato partorito dalla signora F, è davvero fantasiosa quella donna… uno di questi giorni le pubblicherò un libro gratis!), ossia dico allo sventurato firmatario che lo pagherò solo al raggiungimento di una certa cifra di diritti d’autore. Basta poco, anche solo 200 euro, tanto non è a dei matematici che chiedo di firmare, ma a gente che raramente si rende conto di quanti libri debbano essere venduti per raggiungere anche solo 50 euro di diritti d’autore. Altra cosa fondamentale è non specificare nel contratto quante copie verranno stampate. Quei poveracci sono agnellini, anche quando fiutano l’inganno. Ce ne fosse stato uno che mi abbia chiesto una volta di mettere nero su bianco il numero di copie che mi impegno a stampare! Per farla breve, non raggiungeranno mai la cifra concordata (o meglio, a tre o quattro fortunati all’anno la facciamo raggiungere perché nel bilancio un po’ di diritti d’autore devono figurare, altrimenti che casa editrice saremmo?) perché non mando mai in stampa abbastanza copie per fargliela raggiungere. Li abbindolo chiamando “opere” le porcate che scrivono e assicurando loro il 10% di diritti sul prezzo di copertina. Non scrivo (o dico) niente che possa compromettermi, non prometto nulla, perché è nulla che farò (esclusa un po’ di clamorosa caciara sulle pagine social della mia CE). Oltre naturalmente alla prima stampa e a eventuali altre stampe chieste da quei quattro gatti che ci credono davvero e che partecipano a fiere e quant’altro (gestite da loro in tutto e per tutto, io non sborso un centesimo per quei falliti!). Niente pubblicità, niente presentazioni, niente distribuzione. Non do nemmeno i libri da leggere ai blogger di settore, tanto è un’inutile perdita di tempo. Metto i libri in vendita solo negli store online e li faccio arrivare alle librerie che me li ordinano in comodato d’uso (spesso spinte dagli autori stessi). In parole povere a fronte del nulla (o quasi) ricevo il pieno compenso del prezzo di copertina.

Non vi pare geniale? A me sì. E sapete perché lo è? Perché sono i miei clienti a fare tutto. È sufficiente dirgli che non dovranno pagare niente (ho scoperto che gli “scrittori free” – altra definizione più che calzante, data sempre dalla signora F – sono quasi tutti snob e considerano i loro colleghi che pubblicano a pagamento dei perdenti, come se loro fossero dei vincenti… ridicoli!). Ed è vero, non mento loro: non pagheranno altro che le copie scontate che comprano (copie fuori dal conteggio dei diritti d’autore, ovviamente) più le spese di spedizione aumentate del 15%. Per due o tre mesi (a volte anche sei o sette, o anni addirittura!), bombarderanno i loro parenti e amici (la maggior parte dei quali arriverà a odiare il loro penosissimo libro, per via del continuo trituramento di coglioni sui social e quant’altro) e alla fine, è garantito: le copie vendute saranno sufficienti a coprire le spese di pubblicazione e stampa, a pagare mio figlio e la signora F, a tenere calme le mie due ex mogli e a farmi fare un paio di viaggi l’anno con la fortunata di turno. Certo, sarebbe un bel problema se la signora F si rifiutasse di leggere tutta la spazzatura che arriva alla CE e se smettesse di selezionarla passandomi solo i libri che hanno già un editing accettabile, magari fatto da professionisti a pagamento (quei fuori di testa spendono centinaia di euro dietro alle loro “creature”, ormai non devo fare quasi più niente, a volte non leggo nemmeno i loro libri per intero, anzi il più delle volte mi fermo solo alle prime pagine, mando la proposta e, se firmano, aggiungo o tolgo un paio di virgole qua e là, rimando loro il libro dicendo che abbiamo fatto l’editing, quindi aspetto che siano loro a segnalarmi eventuali altri errori che trovano in fase di rilettura per accettazione prima della mandata in stampa), ma non accadrà perché, come vi ho già detto, la signora F è parte integrante del sistema, e se la barca cola a picco, lei affoga per prima.

Per risparmiare tempo (il tempo è denaro, no?), durante il botta e risposta per la definizione del testo da stampare, interviene mio figlio che si occupa della copertina. A dire il vero pago mio figlio molto più di quanto pagherei un grafico qualsiasi a commessa, ma è sangue del mio sangue, che ci volete fare. Voi non ci crederete, ma a volte non serve nemmeno disturbarlo. Alcuni clienti ci mandano persino le copertine già belle che pronte! Alcune fanno davvero schifo, e qui ci pensa mio figlio a far cambiare idea agli scriteriati che vorrebbero usarle, altre sono anche meglio della stragrande maggioranza delle nostre già pubblicate.

Amo la vanità di chi scrive libri: è ridicola, ma è la più grande risorsa che mi sia mai capitata. Ecco, il mio segreto sta tutto qui: ho trasformato un lavoro che mi viene fornito gratuitamente in un guadagno.

Solo una volta mi sono sentito in colpa, devo dirvelo. Mi è capitato tra le mani un buon libro, uno dei rari che ho letto per intero e che sono stato tentato a non pubblicare, da quanto era buono. Lo stavo per rimandare al mittente suggerendogli di non demordere, perché mi piaceva davvero e meritava il giusto sostegno per entrare nell’olimpo della letteratura con la L maiuscola, non in questo viscido sottobosco di cui ho le chiavi anch’io. Poi però ho pensato che la gente non legge, e che nove su dieci anche con la giusta pubblicità, distribuzione e copertura, pur valendo, quel libro non avrebbe ottenuto niente. Non ha senso dare le perle ai porci, e alla fine, mi sono detto: chi se ne frega! Anche lo scrittore che aveva scritto quel buon libro era accecato dalla vanità (anche se non ha mai parlato di sé in terza persona, né si è mai definito un artista, anche se non parlava nemmeno di libro, ma del suo “lavoro”). Gli ho mandato il contratto, e l’ha firmato tre giorni dopo (un “lavoratore”, dunque). Al termine dei due anni sottoscritti aveva venduto un’ottantina di copie: A 17 euro l’una non è riuscito a raggiungere i 200 euro necessari per ricevere i diritti d’autore. Fanculo anche a lui, quindi. Avrà anche scritto un bel libro, ma a conti fatti si è dimostrato un perdente proprio come tutti gli altri. Né più né meno del suo collega bastardo che, un anno fa, dopo aver firmato il contratto per un libro illeggibile, mi ha fatto scrivere dal suo avvocato. E lì, devo dire la verità, per la prima volta mi sono cagato addosso e ho temuto di dover affrontare una causa legale. Più per la rottura di palle, che per la paura di perdere. Alla fine il suo avvocato lo ha fatto ragionare e si è calmato, anche perché avrebbe perso senza il minimo dubbio. Il “sistema Mario T” è talmente perfetto che difficilmente qualcuno (almeno allo stato attuale delle cose, più avanti si vedrà) può scalfirlo. Inoltre la legge mi protegge, guai se qualcuno minaccia di parlare male della mia CE (o si azzarda a farlo sui social o dove gli pare): il mio avvocato (per due spiccioli) azzittisce a suon di diffide chiunque provi ad alzare la cresta.

Ma non mi va di parlare di questioni legali, voglio concludere con la mia ultima trovata. Ne sono talmente orgoglioso che se non la racconto a qualcuno rischio di esplodere, ecco spiegato il perché di questa mia pseudo confessione. Mi sono inventato un concorso (non vi dirò il nome, né i termini, per le solite ragioni). Ho aperto le iscrizioni (naturalmente l’invio degli scritti era gratuito) e ho lasciato due mesi a disposizione per mandare un racconto di tot battute (ometto il numero, indovinate perché?). Hanno partecipato 176 cosiddetti scrittori, nemmeno tanti, ma è il primo anno. Aumenteranno con le prossime edizioni, statene certi. Dei 176 racconti ricevuti la signora F ne ha scelti 40: 20 per libro (pubblicherò addirittura due volumi!). Non è stato nemmeno necessario organizzare una vera e propria premiazione, mi è bastato mandare ai 40 imbecilli una mail dove dicevo che avevano vinto e che, se firmavano la rinuncia a ogni diritto sulle vendite, la pubblicazione del loro racconto era assicurata. 8 “disinteressati” hanno risposto negativamente, un “maleducato” ha insultato la signora F (ovviamente non abbiamo accolto la sua provocazione e abbiamo cestinato la mail senza rispondere) e 4 “intellettuali” sono rimasti silenti prima dello scadere dei termini stabiliti. Come vedete, le percentuali non si discostano molto da quelle che vi ho citato prima. Chiaramente abbiamo subito rimpiazzato questi stronzi con altrettanti imbecilli (i cosiddetti “ripescati”, ma loro, ovviamente non sanno di esserlo). Avevo a disposizione già bell’e pronto il doppio del materiale da pubblicare, volendo avrei potuto far uscire anche 4 volumi, ma non mi è sembrato il caso. A tirar troppo la corda andava a finire che l’anno prossimo non avrei potuto indire la seconda edizione del concorso (quindi la terza, la quarta e via dicendo). Sono certo che almeno quattro o cinque riesco a organizzarle, in più, se mi ingegno, finisce che mi invento altri due o tre concorsi all’anno. Magari li divido in base al genere, o a qualche tema particolare. Pensavo di farne uno a stagione, qualcosa del tipo: “Racconti estivi”, poi “autunnali”, “invernali” e “primaverili”. Bella cagata, vero? Se fosse stata un’idea buona non me la sarei certo bruciata scrivendola a voi.

Tornando al concorso reale, volete sapere come sono andate le cose? Innanzitutto vi dico che, come da stile della mia CE, non ho obbligato nessuno a comprare il libro, e indovinate un po’? Mi hanno ordinato (prepagando, addirittura) 117 copie. È stato un successo ancor prima della prima (e unica) pubblicazione.

Ho mandato in stampa 140 copie (60 del primo volume, 80 del secondo), le restanti 23 (7+16) le metterò in vendita sulla pagina della CE. Niente store vincolanti per questa volta, preferisco non impelagarmi troppo: deciderò cosa fare nelle prossime edizioni in base alle richieste che mi arriveranno con questo primo esperimento. Ho messo in conto di mandare al macero le copie invendute (o meglio, di farle svendere, o regalare a chi compra un altro libro della mia CE, da un paio di librerie gestite da persone fidate), del resto fare impresa richiede un minimo di rischio, o no?

L’idea comunque rimane quella di pubblicare raccolte di racconti su commessa, per cui se con le prossime edizioni dovessero arrivare richieste sufficienti a soddisfare i minimi per eventuali ristampe (immagino di no, ma non è detto, tutto è possibile) darò i libri in pasto agli store, altrimenti continuerò a venderli solo sulla pagina della CE. E quando deciderò che è arrivato il momento di fare spazio manderò le copie invendute al macero (insomma, alle librerie fidate di cui vi ho parlato prima) e scriverò sulla pagina che quelle raccolte sono esaurite. Lascerò traccia della loro esistenza giusto qualche mese, poi anche loro spariranno nel nulla da dove provengono (e in cui per sempre resteranno) gli autori dei racconti che le compongono.

Bene, penso di aver detto tutto. Ci tengo però a scrivere un’ultima cosa a chi, leggendo questa mia confessione, si è indignato e ha pensato che io sia un poco di buono.

In genere sono una persona educata e do del lei agli estranei, ma qui siamo in un contesto surreale, quindi mi permetto di rivolgermi direttamente a te, dandoti del tu.

Caro ben pensante del cazzo, che ti senti superiore a me al punto da considerare il mio lavoro una truffa, voglio che tu sappia che ti disprezzo con tutto me stesso. Chi sei tu per giudicare? Non puoi nemmeno vedermi, ciononostante mi guardi dall’alto al basso, come se tu (e solo tu) fossi il difensore dell’unico e retto comportamento. Ti dovresti vergognare, perché al posto mio faresti anche peggio, te l’assicuro.

Siccome sono una persona di cuore ti do comunque un consiglio (mi permetto di farlo): perché non scrivi anche tu un bel mattoncino, magari sull’etica o sulla morale, e me lo mandi? Ti mostrerò la bellezza dell’olimpo e ti fornirò le chiavi per entrare nel sottobosco. Ma tanto tu non sarai in grado di distinguere tra l’uno e l’altro, e alla fine mi ringrazierai, come tutti gli altri imbecilli che (come te) si nutrono di mediocrità. Nel sottobosco c’è posto per tutti, la mia CE non fa distinzioni, dà a chiunque la chieda un’opportunità, anche a te. E pensa un po’… lo fa completamente a spese mie. Così facendo anche tu potrai soddisfare quella piccola parte del tuo stupido ego che mi permette di vivere. Ti manipolerò: ti tratterò talmente bene che crederai di essere entrato in paradiso, e quando, presto o tardi, anche tu scoprirai di essere solo una stupida rotellina di un meccanismo ben oliato, magari ti arrabbierai con me, ma a conti fatti io avrò mantenuto la mia promessa. Per questo la mia coscienza è a posto. Puoi forse tu dire la stessa cosa sulla tua condotta? Sei davvero sicuro di avere il diritto di giudicare il mio comportamento? A me viene chiesto di realizzare un sogno, grazie alla mia CE chi scrive un libro può vedere il suo inutile e merdosissimo capolavoro ingiallire nella libreria di casa sua e in quella di qualche affezionato amico, parente o fidanzato, o di chiunque lo abbia comprato, fa lo stesso. È questo che faccio, né più né meno. Per cui, per quel che mi riguarda, se non la vedi come la vedo io te ne puoi tranquillamente andare a fare in culo.

La confessione di Mario T, di professione editore (o presunto tale)
La confessione di Mario T, di professione editore (o presunto tale)
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Pubblicato da lincredibilestoria

Sono nato a Genova nel 1973 e sono sempre vissuto a Pieve Ligure, nel Golfo Paradiso, dove tuttora vivo con mia moglie e i miei due figli. Laureato in Economia Marittima e dei trasporti sono impiegato nel settore del commercio. Appassionato di musica e letteratura, negli anni 90 ho realizzato con alcuni amici il sito web www.luciobattisti.net, ossia il primo sito web dedicato a Lucio Battisti, purtroppo oggi non più attivo. Il mio primo romanzo “L’incredibile storia di Marrazzo che non credeva ai fantasmi” (LFA Publusher, 2019) è stato finalista della seconda edizione del concorso “Romanzi in cerca di autore” realizzato da Passione Scrittore in collaborazione con Mondadori Store e Kobo Writing Life. Il secondo, “Frammenti di razionale confusione” (New-Book Edizioni, 2019), uscito nel solo formato digitale, è menzionato speciale del secondo Concorso Letterario New-Book Edizioni. Nel 2020 un mio racconto dal titolo "Vicoli" viene incluso nella collana "Racconti liguri. Vol. 2" (Historica Edizioni EAN: 9788833372013) grazie al concorso indetto dalla Historica Edizioni "Racconti liguri 2020". Il primo volume dell'antologia "Un Natale Horror 2020" (ISBN 9798581288856 - letteraturahorror.it) contiene un mio racconto dal titolo "Alcune distrazioni". Nella raccolta "Corde, delitti e altri misteri" (ISBN ‎ 979-8784705129 - #autorisolidali, dicembre 2021) è incluso un mio racconto dal titolo "La ragazza della cisterna di Ponte Vecchio". "Il racconto di un piccolo cane" appare nell'antologia "Letteratura per il nuovo millennio" (ISBN 978-88-946367-8-9 - QUIA Edizioni, giugno 2022). "Storie di treni, di stazioni e di esplosioni" è inserito nella raccolta della ivvi.it "Scrittori italiani, libro rosso" (settembre 2022). Nel novembre del 2022 la Brè Edizioni pubblica "C'era una volta Lorenzo - Gli ultimi istanti di un uomo sbagliato" (ISBN-13 ‏ : ‎ 979-1259702838), finalista della sesta edizione dell’iniziativa letteraria Fai viaggiare la tua storia, organizzata da Libromania con la collaborazione di De Agostini Libri. Dalla collaborazione con il Centro Studi Storie di Jeri, che si occupa di storia locale inerente ai comuni di Bogliasco, Pieve Ligure e Sori, nasce la pubblicazione del saggio "La favola del castello di Pieve Ligure" nel XV Volume dei Quaderni di Storia Locale (Novembre 2023). La giuria del Premio Letterario Internazionale Casinò di Sanremo Antonio Semeria ha scelto il racconto "Dall’alba al tramonto" per essere inserito nell’antologia dedicata al centenario calviniano dal titolo Camminando sul sentiero dei nidi di ragno (De Ferrari, EAN 9788855036320, Dicembre 2023).